

Venerdì 19 settembre, ore 20:30, presso la Biblioteca di Piazzale Accursio, Piazzale Accursio 5
Di Dario Fo e Franca Rame
Con Monica Bonomi
E con la partecipazione di Tommaso Di Pietro
Regia di Lorenzo Loris
Produzione Teatro Out Off
«
Tre donne esilaranti, diverse e toccanti raccontano la propria quotidianità troppo spesso costellata di violenze e soprusi. Un testo del 1977 che ha fatto la storia del teatro, ma capace di parlare e illuminare generazioni di donne e uomini. Uno testo storico che continua a mantenere intatta la sua portata sociale e la sua forza comica. Lo spettacolo è composto da tre monologhi distinti per tre donne esilaranti e diverse.
Il primo intitolato, UNA DONNA SOLA, è dominato dall’estro spiritoso di una casalinga che sembra disporre di tutto ciò che vuole all’interno del suo nucleo familiare, ad eccezione della cosa più importante: il rispetto della propria dignità femminile.
La seconda storia, ABBIAMO TUTTE LA STESSA STORIA, è la raffigurazione di un sofferto rapporto sessuale fra un uomo e una donna. C’è anche una favola che attraversando i topos narrativi più noti (il lupo, la strega ecc.) mette a confronto una brava bambina e la sua bambola parlante che si esprime in modo scurrile. Queste due figure sono di fatto la stessa persona. La mite bambina è la parte che subisce e la bambola quella che invece si ribella.
Infine, l’ultimo brano, fulminante, agghiacciante e risolutivo che servendosi di una lingua antica del Cinquecento, è ripreso dalla MEDEA di Euripide. Il testo non racconta il dramma della gelosia, bensì il rifiuto di una legge e di una cultura che vuole la donna ossequiante, ancorché umiliata e offesa. È una ballata tragica che Franca Rame dedicava ogni sera alle donne giovani e non più giovani presenti in sala.
“Lo spettacolo è comico e grottesco perché noi donne sono duemila anni che andiamo piangendo e questa volta ridiamo insieme e ci ridiamo anche dietro e poi perché un signore che di teatro se ne intendeva, un certo Molière, diceva: Quando vai a teatro e vedi una tragedia ti immedesimi, partecipi e piangi, piangi, piangi, poi vai a casa e dici: come ho pianto questa sera! E dormi rilassato. Il discorso politico ti è passato addosso come l’acqua sul vetro. Mentre invece per ridere ci vuole intelligenza, acutezza. Ti si spalanca nella risata la bocca, ma anche il cervello e nel cervello ti si infilano i chiodi della ragione.” Franca Rame
Femministe si nasce e femministe si può diventare quando, nel percorso della nostra vita, “si inciampa” in tutti quei torti, soprusi, abusi, subiti dalle donne: è sempre opportuno, pertanto, ricordare che il diritto di voto in Itali, è stato riconosciuto alle donne solo nel 1945, che il numero dei femminicidi è inarrestabile e che le discriminazioni sono una squallida realtà sotto gli occhi di tutti e tutte. Lorenzo Loris, regista
Durata: 70 minuti
Estratti rassegna stampa
Il lavoro tocca, con ironia prima e con serietà dopo, nodi importanti della vita e della psiche femminile, dall’antica Grecia ad oggi, con diverse tematiche di natura sociale purtroppo ancora irrisolte: schemi che si perpetuano nei secoli e che rendono il testo in qualche modo (purtroppo forse verrebbe da dire) immortale e, perché no, “classico”. La regia di Loris spinge su un utilizzo del corpo molto marcato: i tic nevrotici, gli equilibri precari con i piedi sollevati come durante un rapporto sessuale, il modo di toccare il proprio corpo che è un po’ gabbia e un po’ tempio, i passi veloci e marcati, i sorrisi plastici che diventano una maschera che volge all’infelicità (poco) latente. Il maschile appare sul palco solo defilato, con la partecipazione di Tommaso Di Pietro. Ne vediamo solo le mani, le braccia ed infine una camminata silenziosa sul palco nelle vesti di Giasone. Sembra che il testo in questa rilettura porti in sé una sorta di resa dei conti, come se urlasse che ora la voce deve essere quella al femminile. Donne sui generis, ma in fondo così comuni, come ricorda il titolo della seconda pièce.
Tutte e tre le mogli, madri, donne hanno un velo meravigliosamente tragico e tenero, cucito addosso alla drammaticità, alla tenerezza e alla comicità della Bonomi. Come afferma Medea sul finale “meglio essere ricordata come bestia feroce, che dimenticata come capra mansueta, tosata e venduta”.
Il sistema patriarcale con i suoi schemi qui viene mostrato nel suo declinato domestico, nel rapporto sessuale e di coppia. Micromondi che fanno da specchio a quel macro-mondo sociale dove i disequilibri sono gli stessi. L’accoglienza in sala non passa solo attraverso gli applausi. Il pubblico, senza distinzioni di genere, ride e “ascolta” quello che il testo offre, oltre le parole, e attraverso quell’energia e quell’intensità che la Bonomi riesce a trasmettere pienamente. Chiara Amato, Pane Acqua Culture
Bisogna avere una seconda, anzi una terza anima a disposizione, per interpretare tre monologhi. Bisogna, direbbe il buon Jannacci, avere orecchio, per cogliere il tono del personaggio, il giusto swing, ed aleggiare sui tasti della laringe con la levità, naturalezza, precisione e velocità di un Charlie Parker. E Monica Bonomi riesce in tutto questo: con quegli occhietti guizzanti da furbo furetto, quella voce duttile che si plasma con naturalità a seconda dell’occasione scenica, ci riesce benissimo. Vive, letteralmente, con i testi di Franca Rame e Dario Fo una vera, unica, affinità elettiva. È tutta lì, Monica, sul palcoscenico, a giocarsi fino all’ultimo respiro, a fare della vita femminile un meraviglioso giocoserio; e tiene in equilibrio, con un esercizio altissimo, come fanno i grandi poeti, la risata ed il dramma, Talia e Melpomene, la commedia e la tragedia.
Poi c’è quella bocca, quel sorriso che, distorcendosi, diventa uno spazio non euclideo: regge i fiati della platea come Atlante il cielo mitologico, si porta il peso del mondo e dell’esistere. Il corpo, offerto per la nuova ed eterna alleanza con lo spettatore, si agita, si piega al pari di una rana galvanica, si muove con certi passettini da nevrotica geisha suo malgrado, o col passo furioso di una baccante, pronta a divorare tutto l’universo in un sol boccone. Loris, il regista dello spettacolo, rende il parto dei tre personaggi così naturale, che non serve alcuna epidurale di effetti scenici per lenirne il dolore. Qui, il centro di tutto è l’attrice: nel corpo, nell’anima e nella voce, essa stessa un ulteriore corpo. Li potresti persino toccare questi fonemi, tanto sono concreti; pennellate grumose, materiche, che rendono la visione del quadro scenico una potenziale esperienza tattile. Nel primo monologo, una desperate housewife, una donna ben oltre l’orlo della crisi di nervi, un Anna O. che ha perso la fascinazione narrativa della nevrosi freudiana, combatte la sua battaglia quotidiana con una realtà che le si schiaccia addosso. Nella gabbia di un interno borghese, si consuma una tragicommedia, dove, per una eccezionale alchimia, la grottesca comicità del finale di partita beckettiano si fonde con l’imperiale ironia di una Vitti, nel giardino domestico della commedia all’italiana. Nel ridotto di resistenza di un appartamento è fatalmente irrinunciabile che, deliberatamente, la pala del Prigioniero della seconda strada di Simon perda la sua pudica veste ironica, e diventi un – molto meno politically correct – fucile, pronto a sparare ai buñueliani fantasmi della libertà. Nel secondo, la donna engagée, creatura ibrida di Aristofane e Godard, rievoca una maternità senza un filo di grasso retorico, raccontando, con la lama occamiana di una erre blesa, il rapporto tra madre e figlia, dove la bambola abbandonata e ritrovata fugge dal racconto di Sartre, e diventa l’indispensabile anima “cattiva” del Sezuan, per sopravvivere nel mondo patriarcale, che ha molto poco di quello à la Doris Day. Nel terzo, Medea si colloca nella dimensione di un testo in volgare del 500, che ti scotta, insieme, le mani e il cuore.
C’è tutto il vino rigurgitato di carne dalla gola del Ciclope, in questo testo scenico così scomodo, mostruoso, eppure così vero, necessario, con la fascinazione irresistibile degli odori forti, del sangue raggrumato, delle storie di nera che non si può fare a meno di ascoltare. Medea è la catarsi dei tre monologhi: la luce furiosa, irrazionale, da Lupa verghiana di una madonna che può fare denso il suo sangue, fino a renderlo magma, pugnale affilato da affondare nel petto dell’ipocrita. Quanta devastante polvere si trova, in questo lavoro teatrale, mostrata sotto il tappeto di esistenze femminili schiacciate dal tallone di un’apparente ed asfissiante “normalità”. Monica, nella sua recitazione gravida di senso e di vita ad ogni istante, sente tutta la necessità etica dello spettacolo, e, orfana del firmamento di stelle kantiane, si inventa un cielo morale capovolto dentro di sé. Si ribella all’inferno sartriano degli altri, degli uomini, che parlano un linguaggio pre-verbale, con grugniti e suoni da primati, mentre lei diventa una dissonante Lucy in the sky with diamonds. Racconta il suo impossibile over the rainbow con quella voce umanissima, spezzata, tragica, in grado di strizzarti il cuore, di una Judy Garland giunta alla fine della sua forzata casa di bambola e, insieme, della sua vita. Gioco, set, partita: in tre set la protagonista vince, e si merita tutto il generoso capitale di applausi. Danilo Caravà, Milano teatri
Uno spettacolo da non perdere se si vuole avere l’occasione di riflettere divertendosi, accompagnati dalla straordinaria interpretazione Monica Bonomi, che con la sua bravura vi lascerà incollati alla sedia dall’inizio alla fine. Poliradio
Monica Bonomi, diretta da Lorenzo Loris, è la graffiante protagonista del nuovo allestimento dei monologhi scritti da Franca Rame e Dario Fo negli anni Settanta per invitare le donne a prendere consapevolezza di sé e rivendicare il giusto ruolo nella famiglia e nella società. Un’esortazione oggi più necessaria che mai. […] Oggi è bene che Lorenzo Loris alla regia e Monica Bonomi in scena ridiano vita a questo lavoro di Dario Fo e Franca Rame per risvegliare l’orgoglio e la dignità femminile. […] Al di là di questa doverosa contestualizzazione storico-sociale, imprescindibile per le opere della coppia Fo-Rame, lo spettacolo è imperdibile e merita di essere visto. Complice la coinvolgente interpretazione di Monica Bonomi, il pubblico si trova dinnanzi a una straordinaria combinazione di comicità, grottesco e tragedia: si ride tanto ma si annuisce pure davanti a situazioni note perché vissute in prima persona o da conoscenti e amici. […] È importante aggiungere che tra un monologo e l’altro, mentre Monica Bonomi cambia costume e vengono riposizionati gli oggetti di scena e le scenografie ideate da Lorenzo Loris e Luigi Chiaromonte, è possibile ascoltare i commenti con cui Franca Rame racconta la genesi e gli intenti di ciascun monologo. Le tre pièce scelte per Tutta casa, letto e chiesa, come detto in apertura, testimoniano il drammatico perdurare di una condizione femminile di subalternità rispetto al maschio che Loris riesce a enfatizzare nel corso dello spettacolo, marcando i passaggi dove tale aspetto è più evidente. Ciascun monologo, come un brano musicale, ha un proprio ritmo: vivace il primo per assecondarne la vena comica e mosso in allargando il secondo ad accompagnare le vicende della favola mentre Medea è un crescendo del flusso di emozioni dal palcoscenico alla platea, sino a divenire incontenibile. Incontenibile come il pubblico che, dopo aver acclamato Monica Bonomi a scena aperta, al termine si scioglie in un lungo e intenso applauso. Silvana Costa, Artalks
Tutta casa letto e chiesa è uno spettacolo già storico ma tremendamente attuale, con un ritmo sostenuto e una comicità intelligente. Monica Bonomi l’ha interpretato magistralmente, direbbero i critici, e mentre tutti applaudivano, io ho urlato brava! Irene Caravita, Zero