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Domenica 14 settembre, ore 18:30, presso il Giardino Bonelli, via Mac Mahon 41 in prossimità della Statua Tex Willer

Regredior

Di Giovanni Testori
Regia e drammaturgia Roberto Trifirò
Con Roberto Trifirò
Assistente alla regia Tommaso di Pietro
Produzione Teatro Out Off

Partecipazione libera e gratuita.

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Regredior è la prima rappresentazione teatrale dell’omonimo testo scritto da Giovanni Testori in un letto d’ospedale, pochi mesi prima di morire (1992). Roberto Trifirò, regista e interprete, attento studioso delle opere e del pensiero di Testori, entra nelle pieghe nel testo e porta in scena le fragilità, le angosce e le delusioni del protagonista, Torquato. Questi, clochard lombardo – bekettiano vicino alla vecchiaia – respinto e perseguitato dalla società perbenista, passa le sue giornate “de cuntra al mur che poi l’è de marmu, della cà de Diu”, il Duomo di Milano, leccando la “pissa” dei passanti.  Roberto Trifirò fa sua la lingua testoriana e la restituisce al pubblico magistralmente intatta. La parola di Testori ha una forte componente realistica (dialetto, linguaggio popolare, modernismi), ma anche letteraria (arcaismi, citazioni, aulicismi) e – certamente – sperimentale (neoformazioni, prestiti, adattamenti): Testori sa “dare alla carne la parola”. Regredior è un testo che incarna al meglio l’idea testoriana di ‘teatro della spoliazione’, un teatro che si focalizza sulla centralità della parola intesa come atto estremo in cui “il verbo si fa carne per liberarle dalla morte”. È lo stesso Testori a usare queste parole in un intervento dal titolo La parola, come, primo incontro di un ciclo di conferenze organizzate dal Teatro Out Off nel 1988: è per lui necessario dare dare una consistenza materica e materiale alle mancanze e alle difficoltà urlate da molti, ma evidenti solo a pochi. Regredior fa questo e racconta di “una città dolente e dolorosa, offesa e offendibile, al limite dell’indifferenza. I problemi di Milano non si possono risolvere solo urbanisticamente; l’uomo moderno, anche quello milanese, deve capire che non si può porre una città sotto l’egoismo” (G. Testori, 26 luglio 1993).

“Quando si dice che Testori scrive col sangue non ci si serve di una frase fatta: il grido o il canto sembrano uscirgli contro la sua stessa volontà e quando cadono sul bianco della pagina risuonano, hanno il peso di un sasso. Per tentare di definire la sua idea di teatro, Testori si serve di una suggestione: l’immagine di un quadro di un suo amato pittore contemporaneo, Francis Bacon, “Sangue in una stanza”. Che cosa ci dice quella macchia? In un momento in cui la parola, sminuita, è diventata il luogo dell’equivoco, della non libertà e della non autenticità, il teatro, tolti tutti gli addobbi e tutte le malìe, non deve far altro che cercare e ascoltare queste macchie di sangue, questo lacerto umano, entrarci dentro attraverso tutto quello che è possibile, dalla preghiera all’abbraccio, esprimere ciò che è radicale e difendere il diritto a parlare di chi non ha parola. In Regredior, romanzo “teatrato” come lo definiva Testori, attraverso il flusso tragicomico delle parole del protagonista percepiamo le memorie frammentate della sua vita, – una sorta di autoanalisi e sincera confessione al pubblico della sua mente – e partecipiamo alle vicissitudini, reali e surreali, di quest’uomo che vive fino in fondo la sua condanna. Una banda di teppisti – motociclisti, di “usseri del casso”, di angeli sterminatori metropolitani, lo massacrerà di botte, mettendo fine alla sua vita.” Roberto Trifirò

Estratti rassegna stampa

E La forza di questi contrasti arriva grazie alla parola testoriana, quella lingua mitica e concreta, che mescola arcaico e quotidiano, letterario e vita vera, e grazie a Roberto Trifirò, attore bravissimo che si meriterebbe una presenza ben più assidua e primaria nel teatro italiano, interprete di una dedizione vera e di intensità difficile, di grande precisione. Uno spettacolo. E da vedere. Anna Bandettini, la Repubblica

 

È una malattia, il teatro. Ed è una malattia anche la lingua, sempre insufficiente a rendere il mix convulso di moti interiori che fanno di ciascuno di noi una persona irripetibile. È un nodo di nervi, viscere, parole e chiaroscuri il monologo “Regredior”, epilogo letterario di Giovanni Testori (Nova Milanese 1923 – Milano 1993), completato nel 1992 in un letto d’ospedale pochi mesi prima di morire. Rimasto a lungo inedito, lo stesso autore definiva “Regredior” un «romanzo teatrato».

Per la prima volta, un Roberto Trifirò ispiratissimo lo mette in scena al Teatro Out Off di Milano, dopo una rielaborazione del testo durata due anni, in questo 2023 che coincide con il centenario della nascita di Testori. I latinisti ricorderanno che regredior è verbo deponente, che significa «tornare indietro, ritirarsi, retrocedere». Ed è proprio una sorta di regressione e declino questo spettacolo: uno scavo introspettivo nel presente per giungere al passato alla radice dei propri tormenti, e di disturbi psichici che sconfinano nella parafila. In scena Torquato, un vecchio, un emarginato, un “barbone” di fine Novecento sullo sfondo della Milano spaccona ed edonista, nei paraggi del Duomo.

Lavorio, logorio. Complessità. Ogni essere umano è unico, e la singolarità si esprime anzitutto attraverso il linguaggio. La lingua è identità. E sta in ciò anche la tipicità di Testori, che crea per ciascuno dei suoi personaggi una koinè colorita e vivace. Il suo espressionismo lombardo s’impasta di latinismi, solecismi e neologismi di varia natura. Ne nasce un grammelot brancaleonesco, che scompagina in modo sgraziato e violento, triviale e blasfemo, il presupposto di una parlata fissa.

Un accattone, mezzo matto, mezzo ubriaco. Uno straccione strambo e dinoccolato. I capelli scarmigliati. La barba lunga, bianca, incolta. Gli occhi lucidi, arrossati, affossati. Lo sguardo allampanato. Il viso basso. Il cervello in poltiglia. L’abito logoro. I pantaloni tenuti stretti da una corda cadente. Una cravatta cascante su una camicia slabbrata. Le scarpe lise, impolverate. […] Torquato brancola, rantola. Emerge dal suo personalissimo sottosuolo. Si avvicina. Torquato è un’ombra. […] Torquato rovista nella miseria; Trifirò rovista nel mestiere dell’attore accumulato negli anni. Dà vita a un clochard scalcinato e onirico. Torquato è un relitto beckettiano pazzo di solitudine, intriso di frenastenia e schizofrenia. Tra dolore e turpiloquio, maledicendo le ingiurie degli anni, Torquato farfuglia un tormento che non è mai vittimismo. Lo stiamo ad ascoltare come fanno i passanti con gli ubriachi smarriti nei loro soliloqui, irrigiditi nel loro delirio: chi passa oltre distrattamente, chi si fa una risata, chi s’impietosisce, chi prova a dire una parola di conforto, chi si ferma un minuto di più; e avrebbe voglia di dargli un abbraccio. Sostiamo davanti a Torquato. Perché il Cristo che manca da quel crocifisso è proprio lui, con lo sguardo fissato tra i fumi della scighera.

Bravissimo Trifirò a dare un involucro alla materia ostica di Testori, a bruciarne la lingua e ricomporla, facendola rinascere dalle sue ceneri, restituendo identità e dignità agli scarti.
Sorrisi e lacrime. Un lavoro che unisce laidezza e candore, colpa e redenzione. Dopo “Edipus”, con “Regredior” Trifirò riporta in scena Testori estraendone le viscere, quell’intruglio di carne, sangue e midolla. Dimostra cosa voglia dire avere un rovello, a dispetto del teatro facile che strizza l’occhio all’intrattenimento. Il suo vagabondo è un’alchimia d’ilarità e sconforto, gentilezza e perversione. È soprattutto un monito alla città sorda e schizzinosa, perbenista e disumana, dove la povertà è una colpa e gli emarginati un fastidio da relegare in un recesso di solitudine.
Vincenzo Sardelli, Krapp’s Last Post

Un’esperienza di forte intensità che si prova assistendo allo spettacolo REGREDIOR prodotto e messo in scena dal Teatro Out Off. Drammaturgia, regia e straordinaria interpretazione di Roberto Trifirò che incarna Torquato fra parole fatte di carne e movimenti che descrivono la fisicità di una vita brutalmente condannata. Torquato il senzatetto che vive fra follia e ricordi, violente vicissitudini che lo vedono vittima del disinteresse della società e della violenza di coloro che lo massacreranno di botte sino a ucciderlo, così che la società perbene che vive nella grande città non si debba più confrontare con la sua squallida esistenza. […] Uno spettacolo da non perdere, una occasione preziosa per conoscere un testo rimasto a lungo inedito e mai rappresentato a teatro. Giovanna Ferrante

Durante il bel monologo in milanese ben interpretato dall’attore Roberto Trifirò, che ha una bella e potente presenza scenica, si vede sullo sfondo una scenografia contemporanea minimalista degna di un premio internazionale. […] Sono pochi elementi che nell’insieme rendono la povertà razionale del personaggio e la sua pochezza d’intelletto. Una meraviglia di codici e di significati in pochi elementi, geniale. Come sempre sono uscita da questo storico e innovativo teatro milanese dopo aver visto un’opera teatrale bella e riuscita, recitata con sapienza. Serena Rossi, Il pensiero mediterraneo

Già solo il testo è un’opera d’arte: ascoltare Roberto Trifirò, attore e regista del Teatro Out Off, diplomato alla Scuola del Piccolo Teatro, mentre recita Regredior significa abbandonarsi alla musicalità delle parole di Giovanni Testori. […] Trifirò è un interprete di grande efficacia, convince pienamente nella sua resa del complicato protagonista testoriano. È lui anche l’autore della delicata e rispettosa resa drammaturgica del romanzo, e cura la regia del suo stesso spettacolo. […] Subito si mostra agli occhi degli spettatori un uomo dignitoso nella sua povertà, che vive consapevolmente, ma senza odio e rabbia verso la società. I racconti di Torquato portano il pubblico nei ricordi della madre, morta e con cui lui parla, o dei tempi del Beccaria in cui il capo dell’istituto lo costringeva a compiere atti sessuali verso di lui. Fino alla descrizione dei bassifondi di Milano, o delle zone vicino alla Centrale in cui Torquato non va volentieri, troppa violenza e crudeltà.  Non si capisce come possa essere rimasto buono, lui, eppure c’è una sorta di rassegnazione serena al destino che rende questo personaggio tremendamente forte e coraggioso: la sofferenza e la scarsità di mezzi non diventano mai un alibi per compiere il male. Passa le sue giornate “de cuntra al mur che poi l’è de marmu, della cà de Diu”, intendendo il Duomo di Milano. Una dignità che non è messa in discussione neanche dalla “pissa” dei passanti, che Torquato lecca: la confessione della miseria della sua vita che il protagonista rivolge al pubblico, mettendosi a nudo nella sua povertà, non fa che avvicinarlo a tutti gli uomini di cuore. Perché il dolore e le difficoltà accompagnano ognuno noi, la volontà di vivere in modo dignitoso e moralmente ineccepibile in ogni condizione è invece una scelta di nobiltà d’animo che in questo spettacolo, buio nelle scene e nei colori, illumina il cuore. Marta Calcagno Baldini, Milano a Teatro

I fonemi sono un paesaggio del corpo, sono scenografia; sono la verità di un quadro caravaggesco, con personaggi sacri presi nelle bische, prostitute, peccatori in remissione dei nostri peccati di osservatori. Ma sono anche quadri di Bacon, uno degli artisti preferiti dello scrittore, nei quali la torsione della figura arriva a farsi ferita, lacerazione, mostrando, attraverso il bisturi del pennello, l’anatomia interna. La teologia di Testori parte dal bassoventre di nietzschiana memoria, dai desideri più scomodi e inconfessati, inconfessabili, dall’inconscio nella parte più meridionale delle latitudini umane. E non c’è Anna O., o uomo dei lupi, che tenga: sul suo lettino, o meglio sulla panca di una chiesa, in questo caso il Duomo di Milano, i personaggi raccontano quanto il corpo, lontano da quello inorganico teorizzato da Artaud, sia dominato dai suoi fluidi, dalle scorie organiche, che rappresentano il daimon socratico, il pungolo per cacciare il naso giù giù nella terra, molto, ma molto più a sud dei santi beniani.

Già il titolo, Regredior, è una dichiarazione di intenti: un ritorno, un eterno ritorno dell’autore, che riesce a graffiare anche col suo canto, volutamente stonato e disturbante, del cigno. Un clochard, un uomo da marciapiede, un everyman dei drammi sacri calato in una realtà beckettiana – che picchia, però, come i personaggi di Berkoff – esala il suo ultimo monologo interiore, un flusso di coscienza ininterrotto, come quello della sostanza organica che rappresenta la sua ossessione. È un urofilo, una Danae in vesti maschili, che cerca la pioggia dorata del suo Zeus della Bovisa. Incarna la moderna metamorfosi kafkiana, la tipologia più scomoda, più disturbante, ben oltre lo scarafaggio dello scrittore praghese. Roberto Trifirò, nel triplice ruolo di regista, interprete, e dramaturg, accetta la sfida, e immerge mani e piedi nella sostanza, nelle viscere della scrittura di Testori.  Sì, perché l’unico modo di portarlo in scena è rinunciare ai fronzoli, agli orpelli fonetici, ai pennelli, e cominciare a dipingere con tutto il corpo, sporcarsi di colore e di sé stessi. Questo l’interprete lo fa molto bene, e tira fuori dalla laringe una polifonia bollente, anzi rovente, come le pietre fassbinderiane. Nella magnifica lingua reinventata dell’autore, che si lascia attraversare da suggestioni del dialetto, per poi trasformarsi in un grammelot, in grado di mutare a seconda dell’emozione e della circostanza, si vive la storia di un antieroe tragico, un Omero delle periferie, un Edipo rovesciato nell’amore incestuoso; un essere che ha ancora, di Sofocle, quel destin baloss, che gli dichiara scacco matto ancora prima che inizi la partita. […] Fa sentire alla platea i continui grumi di pittura presenti sulla tela della pagina; grumi voluti, necessari, per raccontare meglio le umane vicende. Si tratta di un testamento spirituale come solo l’autore lo poteva concepire, un manrovescio terribile contro la pigra passività del fruitore di letteratura e teatro. Si ritorna di nuovo, e per sempre, a quell’ineffabile rapporto tra la parola e la carne, tra il desiderio del fonema di farsi cosa viva, concreta; persino deiezione, purché lo si percepisca con tutti i sensi, purché lo si possa odorare, toccare. La lezione delle agiografie dei mistici trova conforto in una scrittura che descrive l’impossibile, l’indicibile, il metafisico, con quanto di più scomodamente fisico ci possa essere. Bastano un rozzo crocefisso, una panca da chiesa, e la presenza dell’attore, per compiere questa particolare Messa di un umanesimo all’ultimo stadio, il più basso, prossimo alle latrine. Ma, di nuovo, quello che si mostra, e Trifirò passa alla platea, è la Passione secondo Testori, la storia di Cristo in un povero cristo che, apparentemente, più lontano non potrebbe essere. Eppure, nel suo regredire, nel suo volersi, alla fine, ritrasformare idealmente in un feto, troviamo la luce di un angelo, che riesce a penetrare persino nel più raccapricciante orinatoio. L’anima vive nella carne e nei suoi tormenti, nello sguardo, nei gesti: e tutto questo è ben presente all’attore come un’intuizione chiara, per scriverla alla Nabokov, come quella di dover morire. Danilo Caravà, Milano Teatri

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