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dal 3 al 17 aprile 2025
martedì, giovedì ore 20:30
mercoledì, venerdì e sabato ore 19:30
domenica ore 16:00
Di Fëdor Dostoevskij
Traduzione e adattamento di Fausto Malcovati e Mario Sala
Regia Lorenzo Loris
Con Mario Sala
Scena Daniela Gardinazzi
Costumi Nicoletta Ceccolini
Consulenza musicale Ariel Bertoldo
Produzione Teatro Out Off
Spettacolo in abbonamento Invito a Teatro
Un racconto fantastico, scritto intorno al 1876 da Dostoevskij, che riesce a parlarci ancora oggi della necessità dell’utopia proprio in un momento in cui il presente, più che un sogno fantastico, è un incubo distopico. Per Dostoevskij l’uomo deve porsi degli obiettivi positivi perché la felicità sulla Terra può esistere e cercarla non solo ha senso, ma è forse l’unica cosa che abbia senso fare.
Dostoevskij concepisce Il sogno di un uomo ridicolo come un racconto fantastico, scritto intorno al 1876 e inizialmente inserito nel Diario di uno scrittore. Un uomo ripercorre la sua vita e le ragioni per cui si è sempre sentito estraneo alla società. Ogni interesse, ogni impulso vitale sembra in lui ormai drammaticamente destinato a esaurirsi nel nulla, quando ecco la svolta salvifica presentarglisi in forma di sogno, suggerendo un’improvvisa quanto inaspettata opportunità di riscatto. Il racconto decolla così assieme al suo protagonista, si sposta di piano e approda in altri mondi: le anguste pareti di una povera stanza in affitto esplodono letteralmente nello spazio, e una rivelazione di trascinante potenza si offre disinteressata agli occhi dell’uomo con la forza di una resurrezione per il suo corpo segnato dal dolore e dalla sconfitta. La felicità sulla Terra può esistere, e cercarla non solo ha senso, ma è forse l’unica cosa che abbia senso fare. Ora l’uomo ridicolo lo sa, l’ha vista e toccata con mano, il suo sogno gliel’ha inequivocabilmente mostrata, e ciò che si è visto c’è, non può non esserci. La sua condizione non gli è più di peso, e il tempo della sua vita ora è un tempo pieno, un tempo di parole da regalare, di semplici verità da confidare, senza patemi, a chi, casomai, tra una risata e l’altra le volesse ascoltare.
Note di regia
Un uomo qualunque sa di non essere considerato come vorrebbe, di non essere creduto: non solo, di essere addirittura costantemente deriso per ciò che pensa e dice. Dove può, quest’uomo, trovare la forza di continuare a vivere? Come può entrare in relazione con gli altri? Nel suo cuore ferito e consapevole, la vita, a poco a poco, non può che spegnersi. Perché la sua esistenza abbia un senso è necessario che qualcuno gli risponda. E’ indispensabile che quella piccola fiammella che arde dentro di lui si alimenti attraverso uno scambio di attenzione, di affetto, di amore.
Ma se tutto ciò gli viene a mancare, niente vale più la pena.
All’improvviso accade però che quest’uomo, afflitto dall’inutilità di essere al mondo, riprenda forza e vigore attraverso un sogno e ritrovi la volontà e la gioia di vivere. Ha deciso infatti di trasmettere agli altri la propria straordinaria esperienza, basata su una verità incontrovertibile, tanto semplice ed evidente da non essere vista: l’amore salverà l’umanità e ciò che la circonda.
Questo è ciò che lo stravagante protagonista vuole comunicarci. E per questo viene scambiato per un pazzo. In fondo, il testo di Dostoevskij sta tutto qui.
La nostra scelta per rappresentarlo è stata radicale. Abbiamo prosciugato ogni aspetto predicatorio, cercando di far emergere oltre che un valore religioso più universale, anche una visione profeticamente apocalittica del mondo contemporaneo su cui poter riflettere, filtrata però attraverso il candore e la simpatia del protagonista.
Sulle tavole di un teatro in disarmo, in uno spazio svuotato, uno spazio destinato alla finzione in cui non c’è più niente da fingere, assistiamo al confronto fra uno strano individuo e le sue avventurose fantasie; una specie di clown, che vorrebbe svelare una verità importante a coloro che lo ascoltano ma non intendono prenderlo sul serio. Lui ne è cosciente e ne soffre. Ma in fondo non gli importa. Basta che il suo messaggio salvifico prima o poi raggiunga qualcuno e risvegli le anime morte delle persone che incontra.
Se ponessimo, per un attimo, l’attenzione sulle piccole meschinità quotidiane che tutti noi commettiamo nei confronti degli altri, allora capiremmo quante volte perdiamo l’occasione di tendere una mano a un nostro simile in difficoltà per trasmettergli anche il più semplice gesto d’amore.
L’egoismo, la corruzione, la malvagità non sono inevitabili, il Male non è insito nella natura umana; una nuova via è possibile, una nuova umanità, in pace con se stessa e con la Terra, può nascere e prosperare. Dostoevskij sceglie, per diffondere “la lieta novella”, un uomo insignificante, un emarginato: proprio dai più umili può iniziare il riscatto.
Lorenzo Loris
“Facciamo gesti d’amore e saremo belli”
Dostoevskij visionario. I suoi romanzi cupi, tormentati hanno continui squarci fantastici che ci portano in altri mondi, in altre epoche, in altre dimensioni. I suoi personaggi hanno continui slanci fuori dalla loro realtà, dalla loro esistenza dolorosa, umiliata, frustrata. Spesso, è vero, siamo trascinati in incubi, angosciose immersioni nel subconscio, messaggi disperati, previsioni apocalittiche. Penso ai sogni di Raskolnikov in “Delitto e castigo”: la cavallina che viene crudelmente uccisa dal padrone, anticipazione dell’omicidio della vecchia usuraia, o l’incubo finale in cui l’umanità è distrutta da microbi micidiali fautori di follia. E ancora nei “Fratelli Karamazov” il poema che Ivan inventa per il fratello Alioscia: il Grande Inquisitore, torvo personaggio che affronta Cristo ridisceso sulla terra, lo aggredisce, lo incalza con la sua logica spietata, lo respinge. Ma ci sono anche sogni liberatori, sereni, attimi di sospensione in cui l’uomo si ritrova fuori dalla sua tormentata quotidianità e vive sospeso in una beatitudine che gli sembra irreale. Ricorrente nei romanzi della maturità è il sogno della cosiddetta “età dell’oro”, presente ne “L’adolescente”, ne “I demoni”: il sogno di un’umanità felice, in pace, senza conflitti, il sogno di una natura intatta, di un’armonia che abbraccia tutto il creato. E in questo sogno affiora il grande tema dell’amore: l’uomo, ci dice Dostoevskij, è nato per amare, per dividere con i propri simili affetto, tenerezza, comprensione. E se siamo circondati da violenze, delitti, perversioni, guerre cerchiamo anche noi di far affiorare il sogno (forse, appunto, il sogno di un uomo ridicolo) di un’altra possibilità più umana, per noi umani. Troppo spesso ce ne dimentichiamo, anche noi travolti dal nostro quotidiano affanno: ma è così semplice un gesto d’amore verso chi ci sta vicino. Ecco quello che l’uomo ridicolo vuole predicare: amatevi. E lo prendono per pazzo. Non importa. Basta che il messaggio arrivi. Cadrà nel vuoto, forse. O germoglierà. E allora forse qualche frammento dell’età dell’oro si realizzerà su questa nostra terra così desolata. La bellezza salverà il mondo, ci dice Dostoevskij ne “L’idiota”: non è la bellezza esteriore, è una bellezza interiore che nasce dall’amore. Facciamo gesti d’amore e saremo belli.
Fausto Malcovati
Guarda il Trailer de Il sogno di un uomo ridicolo con la regia video di Stefano Sgarella.
ESTRATTI RASSEGNA STAMPA
E sarà d’ora in avanti un uomo ridicolo perché predicherà la sua verità; un folle, un illuso scopritore di una verità di cui nessuno pensa di aver bisogno. Mario Sala un po’ uomo un po’ clown, un po’ straziante e un po’ irritante, passa dal grottesco al tragico, dalla rabbia alla all’abulia, assente e inutile, poi intenso e partecipante, attento alla gestualità che la regia di Loris ben guida e, grazie alla platea che vuota si spalanca alle spalle dell’attore, crea momenti suggestivi per un racconto profetico, potente e nitida parabola della condizione umana. Magda Poli, Il Corriere della Sera, 9 maggio 2019
Il sogno di un uomo ridicolo di Fëdor Dostoevskij, scritto nel 1876, è un breve, delizioso racconto fantastico qui nella bella traduzione e drammaturgia di Fausto Malcovati e Mario Sala che trova una fisionomia meno visionaria ma di maggiore dolenza e tenerezza nella nitida, semplice, efficace messa in scena di Lorenzo Loris e nell’interpretazione generosa e sapiente dello stesso Mario Sala al Teatro Out Off di Milano. La scena di Daniela Gardinazzi, mette vicini pubblico e attore: sul palcoscenico, gli spettatori stanno seduti ai due lati mentre al centro c’è la poltrona, un tavolino e poco altro dove si muove il personaggio dostoevskjiano, molto simile a un borderline, vestito in modo buffo, strano anche nel modo di camminare, tanto che la confessione del suo isolamento sembra ovvia. Ma mano mano, la regia di Loris crea piccoli scarti, fino al colpo di teatro, quando nel momento del sogno, si apre il telo nero che racchiude la scena e si scopre la platea con le poltrone vuote. È lì che la regia di Lorenzo Loris mette in scena il sogno del paradiso che diventa un inferno, inducendo noi spettatori a specchiarci in quello che lì, nel luogo dove solitamente siamo, ci viene raccontato. […] Quel racconto favolistico dostoevskjiano potrebbe essere anche quello del teatro che non sa chi essere, cosa sarà ma che nella fantasia e nella fiducia, nello slancio dell’arte può trovare nuova vita. Anna Bandettini, La Repubblica, 31 maggio 2019
Quello del sogno è un leit-motiv nella poetica di Dostoevskij, che nasconde la speranza che dalla ferocia fiorisca una nuova epoca d’equità e pace. È la forza dell’utopia. La forza della regia sta invece nella scelta di Loris di aprire il sipario che nascondeva la platea. Il nostro sguardo si allarga alla sala deserta. L’uomo ridicolo fa capolino tra le poltrone vuote. Diventa credibile e serio nell’atto in cui riconosce la propria follia, e stigmatizza le brutture dell’angosciante mondo contemporaneo che ha contribuito a creare. C’è quindi il riferimento tutto dostoevskijano alla bellezza che salva il mondo. Che qui si traduce in un atto d’amore per il teatro, oltre che per la vita e l’umanità. Vincenzo Sardelli, KLP
L’idea di capovolgere il senso della rappresentazione, spostando gli spettatori sul palco e lasciando in mezzo a loro lo spazio all’attore è una soluzione che ha un significato forte. Chiede allo spettatore di lasciarsi coinvolgere, di immaginare insieme all’attore questa “nuova terra” sognata, di vedere il mondo da un nuovo punto di vista, di rimettersi in discussione: quelle sedie vuote di teatro, che a un certo punto l’attore percorre in una ardita e quasi dissacrante ascesa, sono come i nostri cuori, vuoti e desolati, senza l’amore, che non è sentimento melenso ma nasce prima di tutto dal rispetto, per sé stessi, per gli altri e per tutto ciò che ci circonda. Ugo Perugini, Il Mirino
In scena, con il protagonista, un centinaio di spettatori a platea volutamente vuota, in un rituale di tesa e commossa attenzione, come un confidente salotto di amici, mentre Sala dominava la scena, prima ironizzando sull’eccentrica natura clownesca del personaggio, più risibile che ridicolo. Ma progressivamente passando a un nucleo centrale di ispirata poesia, in un afflato di amore e d’innocenza. Forse di dolore. Togliendosi le poche ridicole bardature di clown, per passare, in scuro, a una sua coraggiosa esaltazione d’amore verso l‘umanità. Che allora non l’avrebbe capito. E che oggi gli darebbe del pazzo. Paolo Paganini, Lo Spettacoliere
L’intera sala del teatro accoglie l’universo dostoevskiano: sul palco, dove il pubblico siede intorno all’attore, la scenografia allestisce l’anonima stanza in affitto del protagonista; il «mondo reale» contrapposto al mondo onirico che occupa la platea vuota, svelata ad un certo punto dall’apertura del sipario. L’uomo ridicolo non ha nome: è un individuo come tanti, emarginato, disilluso e dolente. È il rappresentante di una fetta di società sommersa e crepuscolare, fatta di individui «strambi», alla deriva, sradicati, privi di spinte, ideali, legami sociali forti. Mario Sala incarna questa tipologia umana con malinconica empatia. Greta Salvi Rivista della Pro Civitate Christiana Assisi