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dal 19 al 23 febbraio
dal 26 febbraio al 2 marzo
dal 5 al 9 marzo

giovedì ore 20:30
mercoledì, venerdì e sabato ore 19:30

domenica ore 16:00

PRIMA NAZIONALE | PRODUZIONE TEATRO OUT OFF

Cure di masturbazione per rimanere sano, ovvero
IL RE DEL PLAGIO

Di Jan Fabre

regia, interpretazione Roberto Trifirò
scene, costumi, luci Gianni Carluccio
traduzione e drammaturgia Roberto Trifirò
assistente alla regia Tommaso Di Pietro
c
ollaborazione ai movimenti Franco Reffo
foto Alessandro Villa
produzione Teatro Out Off

Spettacolo in abbonamento Invito a Teatro.

Debutta in prima nazionale, mercoledì 19 febbraio,  IL RE DEL PLAGIO di Jan Fabre, monologo con la regia, l’adattamento drammaturgico e l’interpretazione di Roberto Trifirò. Prosegue così la quarantennale relazione tra l’opera e la poetica del regista fiammingo e il Teatro Out Off diretto da Mino Bertoldo; iniziato nel 1985 e mai interrotto, questo legame si è ulteriormente rinforzato nel 2023, con l’ospitalità in prima nazionale al Teatro Out Off di Peak Mytikas. (On the top of Mount Olympus) e, nel 2024, con il Festival Fabre, oltre che con numerose produzioni del Teatro Out Off su testi di Fabre. E proprio uno dei suoi monologhi “manifesto” sull’arte e sulla sua idea di posizione dell’artista nel mondo porta in scena Roberto Trifirò: con il testo Il re del plagio Fabre propone una riflessione profonda sul tema dell’autenticità, reiterando il credo artistico della sua opera. Il re del plagio è l’artista-ciarlatano, che difende l’imitazione come strumento di bellezza e di fragilità per creare arte e, allo stesso tempo, per plasmare la propria identità artistica. Un testo di metateatro, in cui Fabre smaschera continuamente l’artificio scenico e rigetta radicalmente il concetto di originalità come assioma artistico.

Come l’imperatore, l’attore-re si rivolge frontalmente al pubblico, con lo scopo di sedurlo: in modo ingenuo e spontaneo gli chiede di rispettarlo, stimarlo e accettarlo; si mette alla prova, ricerca, ripete. Il re del plagio è un angelo che vuole diventare uomo, che vuole rinunciare alla sua immortalità ed essere ascoltato da un tribunale composto da “scimmie chiacchierine” – perché è così che vede gli umani- per giustificarsi, difendersi ed essere ammesso nell’olimpo dell’umanità. Per riuscirci, ha dovuto prima di tutto imparare a “parlare con le parole degli altri”, a plagiare appunto.

Il testo, riadattato e interpretato da Roberto Trifirò, ha più livelli di lettura: la caduta dell’angelo, la genesi dell’uomo, la riflessione sull’imitazione in generale e, più concretamente, sull’imitazione nell’arte, e infine, l’elogio dell’intertestualità. Il tema della copia e della falsificazione si incontrano spesso nell’opera di Fabre: ne Il re del plagio, che forma un dittico con L’imperatore della perdita del 1994, la genesi dell’uomo è chiaramente associata alla sua capacità d’imitazione. Il testo riflette anche sul dualismo tra l’arte in quanto creazione ex nihilo (romanticismo e modernismo) e l’arte in quanto cultura mimetica (rinascimento e post-modernismo).

«L’uomo non si crea mai a partire dal niente, ma attraverso l’esempio di altri esseri umani. L’uomo è per definizione “cultura”, e non “natura originale”. Il desiderio dell’angelo di diventare umano deriva dal fatto che gli uomini possono prendere dei rischi, subire dei fallimenti, perdere la partita, ma anche desiderare e gioire, al contrario dell’angelo che è al di sopra di tutto. L’angelo vuole diventare umano per poter comprendere gli uomini: un’aspirazione il cui tema è stato interpretato in modo mirabile nel film Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders. L’angelo che vuole diventare uomo, nell’opera di Fabre, è l’angelo che abiura il pensiero dell’originalità e che difende il caos socioculturale della letteratura e dell’arte come genio dell’imperfetto, l’arte umana per eccellenza. Si pensi alla celebre asserzione del filosofo e scrittore Paul Valéry: “Ce qui est fini, n’a pas été fait.” (Cahiers, 1894-1914).

Il re del plagio combatte contro l’ossessione dell’originalità, della purezza e del fondamentalismo creativo. L’intertestualità e il plagio sono qualità umaniste: lo scambio di conoscenze, di testi, di frasi, di parole, dal primo disegno rupestre fino alla copia, sono l’impronta attuale. Il desiderio profondo dell’angelo di diventare uomo non implica in alcun caso un’immagine idealizzata dell’uomo. Si tratta, al contrario, dell’amore che suscita l’uomo nel suo difficile esercizio d’equilibrio tra l’angelo e il diavolo che sono in lui. “È tempo di diventare umani e di comprendere che siamo dei mostri.” Dei mostri nel senso di Frankenstein: l’uomo che si crea, che si clona. Il re del plagio prende anche in prestito, nel suo processo di umanizzazione, delle parti dal pensiero di Albert Einstein, Gertrude Stein, Ludwig Wittgenstein e dalle quattro “Stein” alle quali John Brockman ha dedicato un libro negli anni 80.» Roberto Trifirò.

 APPROFONDIMENTI:

«Cure di masturbazione per rimanere sano, ovvero IL RE DEL PLAGIO è il titolo della mia drammaturgia che trae ispirazione dagli scritti autobiografici di Jan Fabre intitolati “Giornali notturni”, scritti che abbracciano un arco temporale che spazia dal 1978 al 2012.
Anversa, 7 febbraio 1978. “Bellezza: il voodoo che guarisce o avvelena il corpo.” Opbrankel, 31 dicembre 2012: “L’asteroide Eros passa a lungo rasente la terra. Per il nuovo anno, spero che l’asteroide Eros sfiori un po’ anche me. Un uomo non può sperare di più.”Ecco il primo e l’ultimo dei “pensieri” dell’artista belga. Tra i due estremi (42 anni) un viaggio costante, rigoroso, insonne, teso ad analizzare il quotidiano con lo spirito in rivolta, e animato da un’incessante volontà di creare. Volontà di creare che proietta il suo corpo in quasi perenne movimento, sia tra le mura che nello spazio. La sua Anversa, Vienna, Agadir, Tel Aviv, Milano, New York, Napoli (tra le molte altre): terre di conquista e terre di ricerca di compagni di lotta per proseguire insieme l’investigazione di nuovi linguaggi artistici. Perché come gli suggeriva tale Jan de Zak, che Fabre definiva “un gangster dell’arte poetica”: “C’è solo una disciplina che conta per un artista, la specializzazione in curiosità.”
E cercherò, attraverso la disciplina nel lavoro, la follia nell’immaginazione, la curiosità nello scovare suggestioni, provandole e riprovandole, di tradurre in linguaggio scenico gli accenti innovativi, sperimentali, anticonformisti, elettrizzanti, poetici, di Jan Fabre.» Roberto Trifirò

Durata spettacolo: 80 minuti.

 

Roberto Trifirò, attore e regista. Come attore ha lavorato con Bob Wilson, Aldo Trionfo, Luca Ronconi, Sandro Sequi, Stefan Braunschweig, Pier’Alli, Cesare Lievi, Mina Mezzadri, Federico Tiezzi, Monica Conti, Lorenzo Loris, Andrèe Ruth Shammah. Tra i suoi più recenti lavori come regista e interprete ricordiamo: “Il monaco nero” di Anton Čechov; “Parole che cadono dalla bocca” da Samuel Beckett (2009); “Memorie del sottosuolo” di Dostoevskij (2011); “Enigma Moro”, di cui è anche autore (2014); “Adelchi” di Alessandro Manzoni (2015). Con l’Out Off la collaborazione è iniziata nel 1996 con la produzione di “Aprile a Parigi” di John Godber, “L’ultimo nastro di Krapp” di Beckett (1998); Killer Disney  di Philipe Ridley (1999) che lo ha visto interprete diretto da Monica Conti. La collaborazione è proseguita con spettacoli in cui Roberto Trifirò è stato regista e interprete: “Non si sa come” di Luigi Pirandello (2004); “La Confessione” di Arthur Adamov (2008); “Le furberie di Scapino” di Moliere (2010) “King Richard II – studio per autoritratto” da William Shakespeare (2010); “Notizie del mondo” di Luigi Pirandello (2012);  “Vecchi tempi” di Harold Pinter (2012). Nel 2014 ha invece interpretato nel ruolo del protagonista “Affabulazione” di Pier Paolo Pasolini con la regia di Lorenzo Loris, nel 2016 “L’Amante” di Harold Pinter e nel 2017 ha diretto e interpretato, insieme a Giovanni Battaglia, “L’apparenza inganna” di Thomas Bernhard. Nel 2018, inoltre, è stato interprete con Carlo Cecchi nell’Enrico IV di Pirandello, ha portato in scena “Nella solitudine dei campi di cotone” di Bernard-Marie Koltès. Sempre per l’Out Off, come regista e interprete, segnaliamo gli ultimi spettacoli: “Edipus” di Testori (2019), “Confessioni di un roditore” da “La tana” di Franz Kafka (2021), “Regredior” di Testori (2023), “Hughie” di Eugene O’Neill (2024).

 

“Un testo scarno e segreto e un attore bravissimo e completo impreziosiscono un monologo sincero e spudorato di Jan Fabre, un’autocoscienza di artista che molti artisti o aspiranti, o sedicenti tali dovrebbero ascoltare. Si intitola Il re del plagio (in italiano pubblicato nel volume Teatro II di Editoria&Spettacolo insieme ad altri testi) e lo interpreta Roberto Trifirò, anche regista e traduttore, all’Out Off di Milano.
Il testo è uno delle profonde autoriflessioni di Fabre sull’arte che sono anche autocoscienze. Quale è il senso e il peso dell’arte (anche l’arte del teatro) , la sua funzione e la sua verità, si chiede una delle più importanti figure della scena contemporanea a livello internazionale, personalità creativa eclettica, artista visivo e performativo, regista ma anche scrittore che affida parimenti al linguaggio del corpo e alla parola, la forza dei suoi spettacoli. Jan Fabre, belga, in Il re del plagio, in particolare, scritto tra il 1998 e il 2005, mette a nudo gli artifici dell’arte e del teatro, ne denuncia le ipocrisie, addita le falsità, e si interroga su cosa voglia dire essere artisti in modo ironico e drammatico, profondo e autentico.
Il protagonista è un angelo, che vorrebbe diventare un umano e per questo si pone il problema di “scimmiottare” gli uomini, così come l’artista scimmiotta la natura e altri artisti. Il suo monologare si inerpica su riflessioni-confessioni contro l’ossessione dell’originalità e della purezza dell’arte, e sull’utilità o meno della falsità. Si presenta al pubblico e con fare suadente, parla della sua onestà, dell’importanza del ruolo dell’artista ma poi si preoccupa più di quanti applausi gli vengono fatti e se la luce lo illumina abbastanza.
In scena fa un gran bel lavoro Roberto Trifirò, un fior di attore e regista di tutto rispetto, sottostimato dalle asfittiche dinamiche del teatro italiano nonostante un curriculum sterminato a partire dal 1984 con Il Candelaio diretto da Aldo Trionfo. In soprabito grigio, ha la vanità e insieme la piccineria dell’angelo-artista di Fabre, nella interessante scena di Gianni Carluccio, con tante pietre disseminate sul pavimento e su quattro bacheche appese al soffitto. Si rivolge al pubblico, esibendo la propria genuinità e onestà e chiede agli spettatori, le “scimmie chiacchierine” , di essere ascoltato. Con maestria Trifirò, usando la voce con l’abilità dell’attore consumato, il corpo presente e vivo, ostenta la innaturale semplicità ma anche la sottile ipocrisia dell’angelo, mostra la piccineria e la nobiltà dell’artista, bravo a tenere il suo curioso personaggio sul fragile filo che separa lo sbruffone dall’onesto, la presunzione dalla ridicolaggine. Il re del plagio è fino al 9 marzo all’Out Off, cui va il merito di aver sostenuto questo spettacolo in perfetta linea di coerenza con l’attenzione verso il teatro e l’arte di Fabre, un regista che il direttore Mino Bertoldo intercettò fin dal 1985 e che all’Out Off ha presentato molti dei suoi spettacoli, assoli e lavori del gruppo del Troubleyn tra cui l’ultimo straordinario Peak Mytikas e con cui si preannunciano progetti anche per il prossimo anno.” Anna Bandettini, la Repubblica, 28 febbraio

“Il palco del Teatro Out Off di Milano diventa la scenografia di una riflessione spietata, complessa, eppure di straordinaria bellezza sull’arte e sulla sua autenticità. Un’opera che smaschera l’ambiguità dell’artista, travolgendo lo spettatore con la forza di una parola che non ha paura di entrare nei luoghi più bui dell’anima. Questo è “Il re del plagio”, un testo scritto da Jan Fabre e interpretato magistralmente da Roberto Trifirò.

Il monologo di Fabre, ormai più che ventennale, non è un’analisi oziosa, ma un grido, una protesta contro il vuoto di un mondo che sembra aver perso il senso della bellezza autentica. L’artista diventa l’emblema di una condizione esistenziale sempre più precaria. Non è più il genio solitario romantico, ma una figura fragile e lacerata, stretta tra la disperazione della creazione e la cruda realtà della sua impossibilità. Trifirò prende in mano questo testo restituendone tutta l’urgenza. Non è solo attore: è un medium che fa emergere il cuore pulsante di un dramma universale.

Il corpo dell’attore si fa strumento di una verità non edulcorata. Non recita il testo: lo divora, lo assorbe, lo vive. Ogni movimento è carico di tensione. Ogni parola ha il peso di una riflessione che attraversa il tempo e lo spazio. Il suo corpo danzante, ora lacerato, ora sospeso in un canto allucinato, ora sovrapposto a una voce fuori campo, è la metafora di un angelo che cerca di diventare uomo. L’incontro tra l’idea di purezza e quella di umanità è un conflitto che Trifirò incarna senza paura, senza concessioni. […]

Il plagio diventa un atto di umiltà, una condizione per mantenere viva la creazione in un mondo che rifiuta l’imperfezione. Ecco l’incredibile attualità del testo: la riflessione sull’autenticità dell’arte diventa il punto di partenza per una discussione più ampia, che oggi, più che mai, risuona forte nelle sfide poste dall’intelligenza artificiale.

La performance di Trifirò non è solo fisica, ma intellettualmente potente. Ogni parola che pronuncia sembra squarciare il velo della verità, rivelando l’impotenza e la grandezza dell’artista. Non c’è spazio per il superfluo. Ogni movimento, ogni sguardo è concentrato sull’essenza del discorso. Non ci sono spettacolarizzazioni, solo l’essenza di un’idea che scivola sottopelle e ci costringe a guardare oltre.
Le luci, delicate e sfuggenti, contribuiscono a rendere l’atmosfera sospesa in un tempo liquido, ineffabile. Il contrasto tra il buio e la luce evoca il percorso dell’angelo, che non riesce mai a liberarsi dal peso della sua immaterialità. La scena si trasforma in un abisso che risucchia l’essere umano, eppure è lì, nella tenebra, che l’artista cerca la sua salvezza. La luce che si affievolisce lentamente, fino a lasciare il pubblico in un’oscurità senza redenzione, è l’immagine di un sogno che non può compiersi. L’arte, come l’angelo, è destinata a rimanere incompleta, sospesa tra il desiderio di elevarsi e la realtà di un essere terreno. […]

“Il re del plagio” è una riflessione che non solo interroga l’arte, ma la nostra stessa condizione umana. La realtà della creazione, oggi, si scontra con la tecnologia, con l’automazione, con l’intelligenza artificiale. Ma la domanda rimane la stessa: cosa significa essere autentici? Cosa significa essere umani? Fabre, attraverso la forza dell’interpretazione di Trifirò, ci fa immergere in questa ricerca incessante. Il risultato è un’esperienza che non lascia indifferenti, che colpisce nel profondo e provoca, stimolando una riflessione senza fine sull’arte, la bellezza, e la colpa.
Un’opera che si staglia come un faro nel panorama teatrale contemporaneo. Un monologo che non si limita a raccontare, ma che invita il pubblico a vivere, a confrontarsi con l’arte, con la creazione, con la ricerca di significato. Trifirò, con la sua generosità e la sua energia, ci restituisce una performance di rara intensità, in grado di scardinare ogni certezza. Il pubblico, alla fine, resta in bilico, sospeso tra luce e ombra, tra la bellezza e l’inquietudine. Un viaggio che non lascia scampo, ma che offre una bellezza che solo l’imperfezione dell’essere umano può donare. Vincenzo Sardelli, Krapp’s Last Post, 27 febbraio.

“L’attore Roberto Trifirò, in scena, è una presenza, al tempo stesso, immanente e trascendente, e la sua carne, asciutta, essenziale come quella di un personaggio dei quadri di Schiele, ha dialoghi metafisici, potentemente spirituali, con il suo scheletro. Le sue mani hanno la bellezza evocata da Lautremont, quella della retrattilità degli artigli di un rapace; e proprio del rapace il suo viso ha le sembianze, screziate di una dolce inquietudine, frutto della penetrante iride cerulea. Vive, letteralmente, un’intesa completa, erotica, mistica con il testo di Fabre. Si cala, omaggio a Wenders, nei panni di un angelo che cerca di farsi uomo: di un eterno che, con la stessa selvaggia determinazione di un naufrago aggrappato allo scoglio, cerca quel gusto del tempo, quel suo scorrere nella percezione, che solo ai mortali è dato avere.” Danilo Caravà, Milano Teatri

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